Dialogo sull’IRA
collettivoSERRA su Chinese Never Die: Yan 宴 di BEIMA
«Il container dondolava mentre la gru lo spostava sulla nave. Come se stesse galleggiando nell'aria, lo sprider, il meccanismo che aggancia il container alla gru, non riusciva a domare il movimento. I portelloni mal chiusi si aprirono di scatto e iniziarono a piovere decine di corpi. Sembravano manichini. Ma a terra le teste si spaccavano come fossero crani veri. Ed erano crani. Uscivano dal container uomini e donne. Anche qualche ragazzo. Morti. Congelati, tutti raccolti, l'uno sull'altro. In fila, stipati come aringhe in scatola. Erano i cinesi che non muoiono mai. Gli eterni che si passano i documenti l'uno con l'altro. Ecco dove erano finiti. I corpi che le fantasie più spinte immaginavano cucinati nei ristoranti, sotterrati negli orti d'intorno alle fabbriche, gettati nella bocca del Vesuvio. Erano lì. Ne cadevano a decine dal container, con il nome appuntato su un cartellino annodato a un laccetto intorno al collo. Avevano tutti messo da parte i soldi per farsi seppellire nelle loro città in Cina. Si facevano trattenere una percentuale dal salario, in cambio avevano garantito un viaggio di ritorno, una volta morti. Uno spazio in un container e un buco in qualche pezzo di terra cinese. Quando il gruista del porto mi raccontò la cosa, si mise le mani in faccia e continuava a guardarmi attraverso lo spazio tra le dita. Come se quella maschera di mani gli concedesse più coraggio per raccontare. Aveva visto cadere corpi e non aveva avuto bisogno neanche di lanciare l'allarme, di avvertire qualcuno. Aveva soltanto fatto toccare terra al container, e decine di persone comparse dal nulla avevano rimesso dentro tutti e con una pompa ripulito i resti…»
Saviano Roberto - Gomorra. Viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Edizioni Mondadori, 2006
Benché lo spettrale si presenti in questo luogo con la compattezza delle cose terrene, la sua sostanza resta solo percettiva.
Non vi è data sapere la natura di questa apparizione: di certa vi è solo la sua presenza impalpabile. Si insinua come una corrente d’aria fredda tra le giunture dello spazio, scivola lungo le superfici lucide e si trattiene negli angoli dove la luce indugia troppo a lungo. Non ha forma, e tuttavia impone una disposizione. È lui a dettare il ritmo silenzioso della stanza, a organizzare le cose secondo un ordine estraneo, non dichiarato.
Al centro, il tavolo è immobile come un segnale lasciato a metà. Intorno, gli sgabelli vuoti non invitano ma delimitano come corpi minimi, disposti a contenere un’assenza. Il container sospeso incombe con la pesantezza muta delle cose sottratte al proprio uso;
nulla in questa geometria è accidentale, e tuttavia nulla rivela apertamente la propria funzione. Così si ha l’impressione di trovarsi davanti a una scena interrotta, a un convivio di cui restano soltanto le coordinate materiali.
La rabbia che attraversa il lavoro è quotidiana, sedimentata. È la rabbia che nasce dall’essere guardati senza essere visti, registrati
ma non riconosciuti. Chinese Never Die è un’espressione che circola in Italia da decenni, un luogo comune che trasforma le persone
in presenze eterne, prive di storia, di fragilità, di morte. È il rumore sordo di un frammento verbale che non appartiene a nessuno.
L’opera è un modo per nominare l’invisibile. Una condizione sospesa: sembra galleggiare sulla superficie della lingua comune, insinuandosi negli interstizi del pensiero, svuotando i corpi di storia, di lutto, di ritorni possibili. È una formula che congela.
Ma qui, sotto il lucernario della stazione, i morti tornano senza annunci, senza pretese. Tornano come spifferi, come variazioni
di temperatura, come intervalli di tempo che nessuno nota ma che tutti attraversano.
La struttura temporale dell’opera segue il ritmo del lutto nella tradizione cinese: sette giorni, poi altri sette, fino a quarantanove.
Le sette settimane del viaggio dell’anima, il tóu qī, compongono un tempo liminale, in cui i vivi e i morti coesistono nell’attesa del distacco. Ogni giorno, un’offerta, una luce, un gesto: la ripetizione costruisce significato e restituisce ritmo al dolore. La cifra del sette, nella sua risonanza fonetica tra “insieme” (qí) e “inizio” (qǐ), introduce un senso di continuità: ciò che finisce si raccoglie, ciò che scompare inizia altrove. In questo modo, così come il lutto, l’opera si racconta attraverso il linguaggio della soglia. La numerologia agisce come una griglia invisibile, orienta la durata delle presenze, scandisce ritmi che non appartengono al calendario civile. Ogni ciclo apre un varco, un passaggio lento tra mondi contigui, un moto che non ha bisogno di visibilità per affermarsi.
Questo ritmo nascosto attraversa anche l’installazione, che si trasforma lentamente nel corso delle settimane, come un corpo che respira un tempo diverso da quello dei treni che scorrono al di là del vetro.
Il carattere 宴 resta al margine, sospeso nella sua opacità. Unisce in sé i segni di tetto, madre e luce: un interno che accoglie,
una comunità sotto lo stesso spazio. Tuttavia, per chi non conosce la lingua, resta opaco, indecifrabile. È una frattura linguistica
che costringe a sostare nell’incomprensione. In questa sospensione, l’identità vibra come un segnale disturbato, una voce distante
che non si riesce ad accordare. Lo spettrale allora disfa la lingua e la lascia a metà. Convoca senza chiamare, trattiene senza dichiararsi. L’opera non rappresenta la morte, né la narra: ne restituisce la condizione diasporica, il suo esilio perpetuo, il suo modo
di insinuarsi nelle pieghe della materia e del tempo.
Chi attraversa lo spazio diventa corpo in transito, attraversato da un ordine estraneo che scivola silenzioso. Alcuni percepiscono un rallentamento, un’incrinatura sottile, un istante in cui l’aria si fa più spessa. Altri restano immersi nel flusso, senza distinzioni.
Lo spettrale esercita una pazienza ostinata, si deposita negli interstizi percettivi, aderisce ai gesti distratti, si ancora a ciò che sfugge all’attenzione.
宴 appartiene pienamente a IRA GENERANS. La collera come forza che non distrugge ma tiene insieme, che fa emergere, che chiede attenzione.
