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Dialogo sull’IRA

collettivoSERRA su 99% di Lada Uchaeva
 

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«Le giustificazioni dell’ineguaglianza, iper-meritocratiche e occidentalocentriche, mostrano l’incontrollabile bisogno umano di dare un senso alla disparità sociale, talvolta in modi che forzano ogni logica.» [1]

 

Lada Uchaeva lavora con questa tensione, rendendo manifesto quello che le strutture dominanti legittimano, normalizzano e occultano. In una società segnata da molteplici forme di oppressione, l’artista individua nella disuguaglianza economica una condizione trasversale, che struttura l’accesso al potere, alla protezione e alla dignità. Senza escludere le altre dimensioni di violenza sociale, questa prospettiva porta alla luce la modalità in cui esse, spesso, s’innestano su una base materiale condivisa.  

 

Quella di Uchaeva non è un’operazione didascalica, né una denuncia astratta. 99% è un dispositivo simbolico che innesca una consapevolezza collettiva da tempo mitigata, ovvero: che il potere non è distribuito in modo equo, che le istituzioni non garantiscono gli stessi diritti a tutt*, che la violenza – talvolta invisibile – agisce per mezzo dell’economia tanto quanto attraverso la repressione. Il tavolo posto al centro dell’installazione è una riproduzione plastica della gerarchia reale, il cumulo di rifiuti intorno ciò che eccede e che viene scartato. La nostra esclusione non è un effetto collaterale, ma una funzione strutturale del sistema. Un sistema alimentato e mantenuto attraverso la brutalità con cui vengono represse le manifestazioni nelle piazze, l’impunità accordata a certi poteri e l’imposizione di modelli economici estrattivi che legano la sopravvivenza di alcuni alla povertà di molti. Dalle nuove legislazioni “securitarie” – come quelle recentemente introdotte in Italia, che puniscono chi manifesta e criminalizzano il dissenso – fino alle economie globali che perpetuano rapporti neocoloniali, il controllo si esercita sempre più sul corpo e sul movimento, restringendo gli spazi di dissenso. 

 

99% rifiuta l’idea della disuguaglianza come condizione naturale, mostrando, appunto, come questa venga costruita e mantenuta da un impianto normativo che legittima la ricchezza e la violenza dell’1% a danno dei più. L’ordine economico non è neutrale: impone categorie, stabilisce ciò che ha valore, decide chi è degno di essere ascoltato. All’interno di questo quadro, anche il valore della individuale viene riformulato: non si fonda su ciò che si è, ma su quanto si è in grado di produrre, consumare o performare. Chi non aderisce a questi criteri viene espulso; chi li contesta, messo a tacere.

 

La rabbia, in questo contesto, non è una risposta impulsiva, ma una postura politica consapevole, che apre la possibilità di un’alleanza. In una realtà che impone l’adattamento come condizione di sopravvivenza e il silenzio come forma di obbedienza, dichiararsi arrabbiat* è già una forma di rottura. Uchaeva, tuttavia, non idealizza questa rabbia, né le attribuisce una funzione salvifica. La considera piuttosto una forza relazionale, una possibilità di riconoscimento reciproco. Non trasforma, ma connette; e in questo riconoscimento, forse, si dischiude la prima incrinatura nella struttura che regge l’ordine dominante. 

 

Uchaeva richiama pratiche storiche di resistenza: la riappropriazione di materiali marginali, la sovversione dei simboli autoritari, la trasformazione di strumenti repressivi in linguaggio critico. Le posate-manganello, le rose di filo spinato, i rifiuti e la rete metallica non producono solo una rottura estetica, ma smascherano la retorica del privilegio e ne mostrano la brutalità. È un’estetica che denuncia l’opulenza non come traguardo, ma come abuso. Chi guarda è chiamato a riconoscere la propria posizione all’interno di questa architettura sociale, a misurare la propria distanza (o prossimità) rispetto al tavolo da cui si distribuisce il potere. Non è una questione di colpa, ma di accettare che l’ingiustizia non rappresenta una deviazione dal sistema, bensì ne costituisce l’impalcatura e che il silenzio, in questo contesto, si traduce in assenso.

 

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Consigli di lettura: Piketty, T. (2020). Capital and Ideology; Graeber, D. (2019). Bullshit jobs; https://www.contrapoints.com/transcripts/opulence

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[1] Traduzione dall’inglese a partire dal testo originale: «Such hyper-meritocratic, Western-centric justifications of inequality demonstrate the irrepressible human need to make sense of social inequality, at times in ways that stretch credulity.» Thomas Piketty, Capital and Ideology, trans. Arthur Goldhammer (Cambridge, MA: Belknap Press of Harvard University Press, 2020),  36. 

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